Contributi – Giustizia. Eguaglianza. Diritto.

Prof. Luciano Li Causi, Università di Siena

Giustizia. Eguaglianza. Diritto.
Concetti il cui significato universale si relativizza drammaticamente quando ci fermiamo ad osservare una carta geografica politica del Medio Oriente. Si mostrano parole parzialmente o totalmente vuote e prive di significato per tutti i palestinesi che vivono all’interno dello stato di Israele, per quelli della Cisgiordania e di Gaza, per le moltitudini che affollano gli insediamenti ed i campi profughi del Libano, della Siria e della Giordania, per le migliaia di palestinesi dispersi per il mondo. Uomini e donne di un popolo senza stato, per i quali giustizia, eguaglianza e diritti non valgono e non si applicano. Perché se valessero e si applicassero verrebbe minacciata l’esistenza stessa dello stato d’Israele e della sua popolazione. Così recita il pensiero egemonico tra gli ebrei di Israele e del mondo, e tra i governanti di tutti quei paesi dell’Occidente, a partire dagli Stati Uniti, che quel pensiero condividono. Un pensiero che si concretizza, giorno dopo giorno, quando gli uni – gli israeliani – rosicchiano terra palestinese e risorse palestinesi e gli altri – i governi occidentali – lasciano che ciò avvenga. Come se i palestinesi non esistessero o come se quelli esistenti fossero solo elementi ‘sovversivi’ da tenere sotto stretto controllo repressivo, ‘terroristi’.

I palestinesi fuggiti e cacciati dalle loro terre nel 1948, in seguito a quella che essi definiscono ‘nakba’, catastrofe, non hanno diritto a rientrare nelle loro case. Molti ne conservano ancora le chiavi anche se la loro casa non c’è più, rasa al suolo insieme ai loro villaggi ed alle loro città. Il diritto al ritorno per le popolazioni rifugiate è sancito da tutte le dichiarazioni universali sui diritti dell’Uomo, ma non vale per i palestinesi. Ogni ebreo al mondo, invece, può andare in Israele, e diventarne legittimo cittadino. Non tutti gli esseri umani sono uguali.

Quegli stessi palestinesi, ed i loro discendenti, sono dispersi in tutto il mondo; moltissimi vivono ancora nei campi profughi stabiliti e diretti dalle Nazioni Unite, a partire dal 1948, in Libano, Giordania, Siria. Sono considerati spesso un corpo estraneo; sono stati combattuti e repressi, nei decenni scorsi, dagli israeliani e dalle milizie cristiane in Libano, così come dall’esercito giordano, quando hanno mostrato un’autonomia politica e militare, ed una volontà di autodeterminazione. Hanno diritto alla cittadinanza giordana, nel regno hascemita, ma non possono diventare libanesi nel paese dei cedri, né emanciparsi dai lavori più umili e meno qualificati. Sottomessi e silenziosi i palestinesi possono sopravvivere, nei paesi arabi che li ospitano, tra mille compromessi con despoti e governanti che si arrogano il diritto di parlare in loro nome. Quando i palestinesi si mostrano come soggetto politico autonomo, attraverso le loro organizzazioni ed istituzioni, la loro stessa vita è invece a rischio. Non ci sono né giustizia né eguaglianza di trattamento per i palestinesi dell’esilio, e l’unico diritto di cui sembrano godere – ad intermittenza – è quello all’assistenza internazionale. Per il resto, si trovano nelle mani dei governanti dei paesi dove hanno trovato rifugio.

Gli arabi che sono rimasti in Israele dopo il 1948, e che costituiscono oggi circa il 20% della popolazione totale, sono diventati cittadini israeliani. Al contempo, dal punto di vista della costruzione identitaria, sono diventati anche palestinesi; così si autodefiniscono, in maggioranza. Godono spesso di condizioni materiali di esistenza migliori rispetto ai loro connazionali della diaspora, o della Cisgiordania, ma si sentono cittadini di seconda classe – arabi e sunniti – in uno stato costruito di fatto solo per gli ebrei. Innumerevoli leggi, soprattutto nel passato, hanno fortemente limitato i loro diritti, sulla terra, sul controllo delle risorse, sul movimento. Israele dovrebbe pensare ad una eguale cittadinanza israeliana per ebrei e per palestinesi, ma non lo fa.

Ci sono anche i palestinesi che vivono negli ex territori occupati, a Gaza ed in Cisgiordania, sotto il controllo di Hamas e dell’Autorità Nazionale Palestinese, ed altri palestinesi che vivono nei territori ancora occupati. Gaza è la più grande prigione a cielo aperto; così è stata definita, perché in quella striscia di terra non entrano o escono né persone né merci senza l’approvazione delle autorità israeliane. Colpa dei razzi che periodicamente partono dalla striscia e colpiscono insediamenti dei coloni israeliani, e colpa, soprattutto, del fatto che a Gaza la leadership di Hamas non riconosce l’esistenza dello stato di Israele. E così centinaia di migliaia di persone, la popolazione civile, vivono nella povertà e nella sofferenza, e nel terrore dei bombardamenti israeliani che spesso non distinguono guerriglieri e terroristi dai bambini. Per gli abitanti di Gaza c’è eguaglianza di trattamento, in quanto sono tutti ‘prigionieri’, ed eguaglianza di diritti, in quanto non ve ne sono per alcuno. In Cisgiordania, occupata dopo la guerra del 1967,  gli insediamenti di coloni israeliani, collegati tra di loro e con la madrepatria, e protetti da un muro, hanno progressivamente divorato le terre palestinesi, sfruttandone al massimo le risorse naturali, tra le quali quelle idriche. La sovranità dell’Autorità Nazionale Palestinese si esercita ormai solo su una porzione minoritaria dei territori occupati; in ogni caso è una sovranità assai limitata, perché i confini esterni sono vigilati dall’esercito israeliano, che decide cosa possa o cosa non possa transitare da un lato all’altro del posto di blocco. Ramallah, la sede dell’A.N.P., rischia di diventare giorno dopo giorno la capitale di un Bantustan del Medio Oriente, uno di quegli pseudo-stati che il regime razzista di Pretoria, in Sud Africa, aveva creato per relegarvi le popolazioni indigene e per tenerle sotto controllo.

Se non vi sarà  un mutamento, a livello internazionale, ma anche nei governanti israeliani e nelle dirigenze politiche palestinesi, Il progetto della costituzione del ‘Grande Israele’, patrimonio culturale e politico della parte più retriva e fondamentalista dell’ebraismo, avrà successo, ingoiando la quasi totalità della Palestina. Per i non ebrei, per i palestinesi sunniti ed anche cristiani, rimarrà la possibilità di andare via, per raggiungere i loro parenti nell’esilio, oppure di rimanere. Senza alcuna velleità di autodeterminazione, sotto le bandiere israeliane, oppure formalmente autonomi, all’interno di un non stato palestinese, sotto lo stretto controllo delle autorità di Tel Aviv.

Se questo dovesse accadere, giustizia, eguaglianza e diritto diventerebbero definitivamente parole senza senso. La legge imperiale del più forte le cancellerebbe, come per altro è già accaduto tante altre volte nella storia dei popoli. E come è accaduto anche agli ebrei, vittime della più spaventosa tragedia che ha insanguinato il Novecento. Ma in questo caso le conseguenze sarebbero ancora più gravi e definitive, perché i palestinesi, come ricorda Edward Said, sarebbero –  sono – le ‘vittime delle vittime’.