Jenin significa paradiso

Jenin è una città di centodiecimila abitanti situata nel nord della Cisgiordania. Il significato del suo nome arabo, paradiso, ricorda la fertilità dei campi che la circondano, che potrebbero offrire alla popolazione frutti ed olive in abbondanza. Dal 2002 invece, per i palestinesi, il suo nome è associato all’idea stessa di inferno, da quando, cioè, Sharon lanciò l’operazione scudo difensivo che ha reso tristemente noto il nome di questa città per associarlo ad uno dei più drammatici massacri degli ultimi vent’anni. Sei anni fa la città fu assediata dall’ IDF, l’esercito israeliano, che circondò completamente il campo profughi (uno dei più grandi di tutta la Palestina) ed iniziò, giorno dopo giorno, a stringere un anello di morte fatto di blindati, carri armati e bulldozer, radendo al suolo case ed edifici senza dare la possibilità agli occupanti di uscire. Nonostante sia stata rimandata al mittente la richiesta dell’ ONU di inviare una squadra per iniziare delle indagini sul massacro, diverse testimonianze ed inchieste autorganizzate ci parlano della brutalità di quelle giornate, fatte di esecuzioni sommarie, uccisioni a sangue freddo, fosse comuni e annullamento dei più elementari diritti umani.
Oggi nelle strade di jenin si possono vedere ancora tutti gli effetti di quell’orrore e di quel massacro infinito che si consuma giorno dopo giorno, attraverso le incursioni quotidiane dell’esercito Israeliano. Sono effetti che si vedono nello sguardo vuoto dei bambini, nei loro muscoli tesi, nelle teste incassate nelle spalle. Nella loro incapacità di rilassarsi, fosse anche solo per un momento, anche solo per dormire. Così Jenin, che i falchi di Tel Aviv definiscono il nido della resistenza, è un luogo dove una popolazione disumanizzata, resa obiettivo da abbattere per uno degli eserciti più potenti del mondo (Israele è la quinta potenza mondiale), rimane vittima di patologie post-traumatiche, che variano dall’insonnia alle difficoltà di concentrazione, in una forma così diffusa, specie fra i più piccoli, da assumere caratteri epidemici.
Jenin: la città dei bambini che non sanno dormire, degli spari che arrivano con il buio, dei fori di proiettile presenti su ogni muro e delle impronte dei carri armati sull’asfalto. E anche la città dove puoi scoprire la forza di un popolo attraverso un sorriso.
Il nostro Summer Camp era stato organizzato in questo luogo così difficile eppure così significativo per un progetto che si propone di costruire una cultura fuori dal conflitto. Insieme a gruppi di animatori composti da studenti e studentesse dell’Università di Gerusalemme e da ragazzi di Jenin che si sono formati nel Creative and Cultural Center di Youssef Shalabi. Abbiamo visto la tensione di tanti bambini sciogliersi nei sorrisi che accompagnavano la loro partecipazione alle mille attività pensate per loro. Dai giochi all’aperto nel piazzale della scuola che ci ospitava, alle mille partite di calcio con noi che, condividendo la stessa nazionalità di chi aveva vinto il trofeo dei Mondiali, avevamo cucite addosso aspettative da campioni regolarmente deluse quando crollavamo sotto il caldo asfissiante perdendo con punteggi da partite di tennis.
Ma i campi estivi non sono solo costruzione di spazi artificiali lontani dalla violenza, sono, soprattutto, percorsi di emancipazione, di costruzione di una cultura diversa da quella che rimane schiacciata fra i raid e le esplosioni, la vita in un campo profughi e la resistenza armata come unica prospettiva di vita.
Nei corsi di teatro, basati perlopiù sull’improvvisazione, abbiamo visto le emozioni sfondare ogni barriera costruita dal dramma quotidiano. Si rompevano gli schemi imposti dalla radicalizzazione della religione, le espressioni statiche di paura e tristezza stampate indelebilmente sui loro volti mutavano come fiori che sbocciano. Dentro a quella stanza scomparivano i bambini senza presente e passeggiavano in cerchio distinti signori che si salutavano sulle strade di Londra o animali esotici che correvano nella giungla. E ancora i laboratori di disegno, il laboratorio di musica, quello di decoupage…
Il campo durava tutto il mattino. Il resto della giornata trascorreva insieme agli animatori, attraversavamo la città condividendo spazi inimmaginabili che anelavano ad una normalità irraggiungibile spezzata ogni volta da spari, allarmi, raid. Ma questa è una storia a parte che non si può raccontare se non attraverso i piccoli racconti e gli sfoghi che abbiamo scritto in quei giorni e che riportiamo, per intero, in queste pagine.

(2007)