Ecco Tulkarem

Solo quando abbiamo calpestato il suolo di Tulkarem, tre giorni dopo, abbiamo potuto osservare la situazione in maniera più completa e tentare, per quanto sia difficile e complessa, di capirla. Per le strade del campo profughi, il giorno successivo al nostro arrivo, c’era molto movimento. Davanti ad una moschea si stavano concentrando tutti coloro che intendevano partecipare alla manifestazione di Hamas: un piccolo gruppo che cresceva minuto dopo minuto. Il compagno palestinese che ci accompagnava ci ha raccontato che il giorno precedente c’era stato un altro corteo, con la stessa piattaforma, organizzato da Al-Fatah. Dopo neppure un quarto d’ora è arrivato un furgone con un sound system, la musica si è spenta quasi subito e lo speaker ha iniziato a parlare con una forza ed una potenza incredibile che impregnava la sua voce. Non un volto, dei presenti, non era girato verso di lui. Non uno in quella piazza rifuggiva dal fascino di quella voce maestosa che invocava Allah ed il suo popolo. Alla fine sono scese in strada tremila persone: i militanti in prima fila e dietro tutti gli altri, con le donne con il velo bianco che chiudevano quel serpentone umano. Alla fine erano più di tremila a puntare il dito indice al cielo invocando il proprio Dio. Ma dietro a tutto questo c’è di più. C’è la volontà di un popolo di difendere la propria cultura, di impedire all’occidente di denigrarla in maniera gratuita. Un ragazzo palestinese, davanti ad un thè, ha parlato con noi per ore del senso e del bisogno della religione, ammettendo idee ben distanti dalle sue senza scandalizzarsi o indignarsi in alcun modo. Ma contro l’offesa ricevuta dal giornale danese il giudizio è una condanna unanime.

(Alessandro Francesconi)