Il viaggio di Visionaria 2

La testimonianza di Nicola Contini.

Quando Visionaria mi chiese di partire per andare a Dura, un piccolo paese che vive di agricoltura vicino ad Hebron, in Palestina, e tenere un laboratorio di cinema documentario rivolto alle ragazze ed ai ragazzi delle scuole medie superiori mi sembrò un sogno: proprio io avevo l’occasione di andare in quel posto cosi tante volte letto e commentato; proprio io, imbevuto dei miei ideali avrei potuto confrontarmi contro tutto quello che rappresentava e tuttora rappresenta per me l’errore e l’orrore umano, la sopraffazione contro gli inermi, la prevaricazione e l’arroganza contro gli indifesi… mi sentivo un eroe pronto ad imbracciare la videocamera, la mia unica arma, per documentare la vita di quelle persone e mostrarlo in Italia e magari farci un bel documentario di quelli che alla fine ti riempiono fino all’indomani di quel senso d’irrisolta impotenza.
Ancora oggi, a distanza di anni, penso spesso a quel viaggio che, insieme a Nicola Raggi e a Renzo Barbetti, abbiamo avuto la fortuna di fare.
A quel senso di familiarità di sangue per quei luoghi, i cibi, la pietra bianca delle costruzioni, il pane a cuocere contro le pareti roventi in pietra dei forni a legna, alle lunghe fila di alberi tagliati lungo le strade per impedire le imboscate, ai brutti fortini in acciaio e cemento muti come nella poesia di Quasimodo, alle chiese, alle moschee ed alle sinagoghe cosi strette e vicine [mi ricordo quella mattina, Fatima, in cui ci portasti, insieme agli altri, festanti, in cima a quella collina a vedere i resti di una villa romana e l’aria era stranamente silenziosa e quieta e in fondo, mi hai indicato, si vedeva il mare e io ho visto Gaza e le colonne di fumo innalzarsi lentissimamente]  alla determinazione ed alla forza delle donne – le donne cosi pragmatiche della Palestina – ma soprattutto penso a loro e non li nomino neanche perché avrei paura di scordarmi anche solo un nome tra tutte quelle meravigliose persone che abbiamo incontrato.
Alla loro curiosità verso il mondo, loro che parlano inglese meglio di chiunque di noi, alla loro sete di conoscere di comunicare agli altri la loro esistenza, non voler essere lasciati indietro; a non voler essere da meno, degli altri; piccoli esseri in gabbia e noi che rappresentiamo per loro quell’altro che pure esiste e che non indossa una mimetica, non li brutalizza perchè a quindici anni non portano il documento d’identità e loro a guardarli con l’aria di sfida di un’adolescente con già mille anni alle spalle e giù botte e ogni anno che passa mi dico, quest’anno ci ritorno e vedo come sono cambiate le cose per loro, chissà se si ricorderanno di noi e se non sono rimasti delusi da noi.